Concordo, film avvincente a ben fatto.
Dopo aver visto il film, ho letto anche il libro.
Mentre il film si concentra ovviamente sull'incidente con un taglio perlopiù aeronautico (cosa molto apprezzabile), il libro invece è una classica autobiografia a tutto tondo di Sullenberger, che permette di farsi un'idea del mondo aeronautico USA, sia civile che aeronautico, ma anche della mentalità e della cultura USA in generale.
Ne parlo qui per riportarvi una curiosità aviatoria, sulla gestione di turni e domicili degli equipaggi, argomento che negli anni è saltato fuori spesso, in relazione soprattutto ad Alitalia.
Ebbene, Chesley Sullenberger da decenni risiedeva e risiede nella Bay Area. Negli ultimi anni in US Airways, era di base a Charlotte, e sapete cosa faceva?
Per recarsi al lavoro, partiva come passeggero da SFO e atterrava a CLT (3700km!); qui si metteva ai comandi, si faceva un turno di 4-5 giorni (dormendo ovviamente in hotel a CLT o dove faceva night stop), e poi rientrava a SFO a fine turno. :cotto:
Come già confermava anni prima Patrick Smith nel suo Chiedilo al pilota (Ask the pilot), pare che negli States sia una cosa normalissima avere domicilio anche a migliaia di chilometri dalla base e prendere servizio volando da casa alla base della compagnia.
Dopo aver letto queste testimonianze, ho naturalmente ridimensionato i problemi tipo "aereo a Milano, equipaggio a Roma". Cosa volete che sia un FCO-MXP in confronto ad un bel Coast-to-Coast made in USA? :green:
Buon pomeriggio!
Pierluigi
Precipita A320 US Airways nel Hudson Bay a New York!
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in questa sezione si trattano argomenti di aeroporti stranieri ma anche italiani fuori dalla Lombardia
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Re: Precipita A320 US Airways nel Hudson Bay a New York!
Nel libro c'è scritto chi pagava l'albergo a CLT e se i turni erano sempre di 4-5 giorni? Per il volo di "riposizionamento" SFO (?)-CLT a/r usava lo strapuntino, pagava il biglietto di tasca sua o glielo offriva la compagnia? Anche per gli AV, negli USA, è normale fare così? E infine, che percentuale del personale di volo USA vive lontano dalla base di riferimento? Forse nei contratti USA normalmente non c'è l'obbligo di vivere nelle vicinanze della base.
Sarebbe interessante saperlo, perché credo che l'esperienza Alitalia FCO/MXP non sia completamente sovrapponibile o confrontabile con quanto succede negli USA.
Sarebbe interessante saperlo, perché credo che l'esperienza Alitalia FCO/MXP non sia completamente sovrapponibile o confrontabile con quanto succede negli USA.
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Re: Precipita A320 US Airways nel Hudson Bay a New York!
@Pierluigi
Si fa anche in Europa, ma limitatamente ai piloti. Non si fa con gli A/V, salvo forse eccezioni.
Con Alitalia gli equipaggi andavano da FCO a MXP in orario di lavoro, non prima di prendere servizio.
Si fa anche in Europa, ma limitatamente ai piloti. Non si fa con gli A/V, salvo forse eccezioni.
Con Alitalia gli equipaggi andavano da FCO a MXP in orario di lavoro, non prima di prendere servizio.
Re: Precipita A320 US Airways nel Hudson Bay a New York!
E che ne so?!KittyHawk ha scritto:Nel libro c'è scritto chi pagava l'albergo a CLT e se i turni erano sempre di 4-5 giorni? Per il volo di "riposizionamento" SFO (?)-CLT a/r usava lo strapuntino, pagava il biglietto di tasca sua o glielo offriva la compagnia? Anche per gli AV, negli USA, è normale fare così? E infine, che percentuale del personale di volo USA vive lontano dalla base di riferimento? Forse nei contratti USA normalmente non c'è l'obbligo di vivere nelle vicinanze della base.
Sarebbe interessante saperlo, perché credo che l'esperienza Alitalia FCO/MXP non sia completamente sovrapponibile o confrontabile con quanto succede negli USA.
Ho solo riportato un aneddoto tratto da un'autobiografia (che parla di aerei, ma anche di amori, casa, vita nell'esercito, vita in famiglia, scuola dei figli, sport e hobby, malattia dei genitori, etc) non un'analisi scientifica del mercato del lavoro USA! :green: :ciao:
Re: Precipita A320 US Airways nel Hudson Bay a New York!
Come si chiama il libro?
Malpensa airport user
Re: Precipita A320 US Airways nel Hudson Bay a New York!
Si chiama semplicemente "Sully".I-Alex ha scritto:Come si chiama il libro?
https://www.ibs.it/sully-libro-sullenbe ... 8869051104
Re: Precipita A320 US Airways nel Hudson Bay a New York!
Questo articolo è uscito il 31 luglio 2009 nel numero 806 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo The people who fell to earth.
Sei sopravvissuti raccontano come si esce da un disastro aereo.
PRIMO RACCONTO
Josh Peltz, 39 anni
Volo: Us Airways 1549
Luogo dell’incidente: fiume Hudson, New York, Stati Uniti
Data: 15 gennaio 2009
Vorrei credere che tutti si sarebbero comportati come me. Ero seduto al posto 10F, vicino al finestrino accanto all’uscita di emergenza, sul lato destro dell’aereo. Prendo l’aereo due volte al mese per lavoro e cerco sempre di trovare un posto con più spazio per le gambe. Non ho paura di volare: quando siamo decollati stavo per addormentarmi. Qualche minuto dopo, però, c’è stata una forte esplosione, come il ritorno di fiamma di un’automobile. L’aereo ha avuto uno scossone e si è sentito un odore di macchinari bruciati. Sono rimasti tutti senza fiato. Qualcuno ha urlato.
Guardando fuori dal finestrino vedevo che eravamo sballottati avanti e indietro. Sotto di noi le case sembravano giocattoli e le macchine formiche. Ma dal momento che non stavamo precipitando, ho pensato: “Uno dei motori si è rotto, ma ne abbiamo un altro e stiamo tornando all’aeroporto LaGuardia. Il pilota ha tutto sotto controllo”. Non mi ero reso conto che entrambi i motori avevano smesso di funzionare.
C’era un silenzio innaturale. Tutti cercavano di capire cosa stava succedendo. Una cosa era chiara: non eravamo diretti all’aeroporto, ma puntavamo sull’acqua. Allora ho cominciato a pensare che forse era la fine. Ho pensato a mia moglie Tesa e ai nostri due figli: Adeline, di quasi tre anni, e Zy, che aveva appena dodici settimane. Ho cercato di rassegnarmi, ma poi c’è stato l’annuncio: “È il capitano che parla. Preparatevi all’impatto”. In quel momento ho capito che non dovevo pensare alla morte ma a cosa avrei fatto dopo l’ammaraggio. “Se questo è il posto che ti hanno assegnato”, mi sono detto, “devi riuscire ad aprire quel portellone”.
Quando eravamo a circa mille metri ho cominciato a leggere le istruzioni. C’erano sei passaggi: li ho letti due o tre volte, cercando di memorizzarli e di immaginare me stesso mentre aprivo il portellone. Ci stavamo avvicinando rapidamente all’acqua. Ho stretto bene la cintura di sicurezza e mi sono raggomitolato coprendomi con il cappotto. Poi c’è stato l’impatto. È stato come il peggiore incidente automobilistico che possiate siate immaginare. L’aereo è rimbalzato e poi ha cominciato a pattinare sull’acqua. Quando si è fermato, molti passeggeri avevano il naso o gli occhi coperti di sangue, perché avevano sbattuto sul sedile davanti. Ma il mio primo pensiero è stato: “Questo aereo sta per affondare, dobbiamo uscire tutti al più presto”.
Qualcuno accanto a me stava cercando di aprire il portellone tirandolo verso l’interno. “No, deve spingere verso l’esterno”, gli ho detto. Lo avevo appena letto sulle istruzioni. Sapevo che tutti si sarebbero precipitati verso l’uscita d’emergenza. Bisognava evitare che le persone si ammassassero bloccando il passaggio. Sono riuscito ad aprire il portellone e ho afferrato la mano di Jenny, la donna seduta accanto a me. Siamo usciti sull’ala e abbiamo percorso qualche metro tenendoci a vicenda.
Le onde lambivano l’ala che affondava lentamente. Ci siamo spinti il più avanti possibile per fare spazio ad altri passeggeri. Quelli che erano seduti agli ultimi posti spingevano per uscire, mentre l’aereo cominciava a riempirsi d’acqua. Ma sull’ala tutti aiutavano tutti. Faceva molto freddo e nessuno aveva la giacca. C’erano persone immerse nell’acqua fino alla vita e io pensavo: “Adesso affoghiamo. Moriremo congelati”.
Mi è sembrato che il traghetto ci abbia messo mezz’ora ad arrivare, ma forse sono stati cinque o dieci minuti. Per un attimo ho pensato di tuffarmi per raggiungerlo, ma avevo sentito che bastano pochi secondi per andare in ipotermia: nel giro di qualche minuto gambe e braccia non funzionano più. Se la testa finisce sott’acqua, il cervello può subire dei danni. Sono stato il quarto a salire sul traghetto, e ho cominciato ad aiutare gli altri. C’era una donna che si teneva stretto un bambino. Un uomo, stordito perché era finito sott’acqua, stava sdraiato sul ponte del traghetto e si lamentava. I marinai si sono tolti le giacche e le camicie per darle ai passeggeri che morivano di freddo.
Il trauma mi è rimasto. Ho immaginato tanti finali diversi: il portellone che non si apriva, l’ala che sbatteva contro la superficie del fiume rovesciandoci e facendoci ruotare finché l’aereo andava in pezzi e io finivo a testa in giù, sommerso dall’acqua. E ho anche pensato: perché proprio io? Perché sono ancora qui? Ma di questa esperienza ricorderò sempre che tutti hanno fatto del loro meglio per aiutare gli altri. È confortante sapere che in un momento di difficoltà sono stato capace di reagire. Sono riuscito a farcela affrontando una cosa alla volta, pensando solo ai dieci secondi successivi. Apri il portellone, spingilo in fuori, cerca di capire se stai affondando. Qual è la prossima cosa che devi fare? Ho continuato così finché ho toccato terra, sono entrato nella stazione dei traghetti e ho parlato con mia moglie. Solo allora sono andato in bagno e mi sono abbandonato al pianto per qualche minuto.
Sei sopravvissuti raccontano come si esce da un disastro aereo.
PRIMO RACCONTO
Josh Peltz, 39 anni
Volo: Us Airways 1549
Luogo dell’incidente: fiume Hudson, New York, Stati Uniti
Data: 15 gennaio 2009
Vorrei credere che tutti si sarebbero comportati come me. Ero seduto al posto 10F, vicino al finestrino accanto all’uscita di emergenza, sul lato destro dell’aereo. Prendo l’aereo due volte al mese per lavoro e cerco sempre di trovare un posto con più spazio per le gambe. Non ho paura di volare: quando siamo decollati stavo per addormentarmi. Qualche minuto dopo, però, c’è stata una forte esplosione, come il ritorno di fiamma di un’automobile. L’aereo ha avuto uno scossone e si è sentito un odore di macchinari bruciati. Sono rimasti tutti senza fiato. Qualcuno ha urlato.
Guardando fuori dal finestrino vedevo che eravamo sballottati avanti e indietro. Sotto di noi le case sembravano giocattoli e le macchine formiche. Ma dal momento che non stavamo precipitando, ho pensato: “Uno dei motori si è rotto, ma ne abbiamo un altro e stiamo tornando all’aeroporto LaGuardia. Il pilota ha tutto sotto controllo”. Non mi ero reso conto che entrambi i motori avevano smesso di funzionare.
C’era un silenzio innaturale. Tutti cercavano di capire cosa stava succedendo. Una cosa era chiara: non eravamo diretti all’aeroporto, ma puntavamo sull’acqua. Allora ho cominciato a pensare che forse era la fine. Ho pensato a mia moglie Tesa e ai nostri due figli: Adeline, di quasi tre anni, e Zy, che aveva appena dodici settimane. Ho cercato di rassegnarmi, ma poi c’è stato l’annuncio: “È il capitano che parla. Preparatevi all’impatto”. In quel momento ho capito che non dovevo pensare alla morte ma a cosa avrei fatto dopo l’ammaraggio. “Se questo è il posto che ti hanno assegnato”, mi sono detto, “devi riuscire ad aprire quel portellone”.
Quando eravamo a circa mille metri ho cominciato a leggere le istruzioni. C’erano sei passaggi: li ho letti due o tre volte, cercando di memorizzarli e di immaginare me stesso mentre aprivo il portellone. Ci stavamo avvicinando rapidamente all’acqua. Ho stretto bene la cintura di sicurezza e mi sono raggomitolato coprendomi con il cappotto. Poi c’è stato l’impatto. È stato come il peggiore incidente automobilistico che possiate siate immaginare. L’aereo è rimbalzato e poi ha cominciato a pattinare sull’acqua. Quando si è fermato, molti passeggeri avevano il naso o gli occhi coperti di sangue, perché avevano sbattuto sul sedile davanti. Ma il mio primo pensiero è stato: “Questo aereo sta per affondare, dobbiamo uscire tutti al più presto”.
Qualcuno accanto a me stava cercando di aprire il portellone tirandolo verso l’interno. “No, deve spingere verso l’esterno”, gli ho detto. Lo avevo appena letto sulle istruzioni. Sapevo che tutti si sarebbero precipitati verso l’uscita d’emergenza. Bisognava evitare che le persone si ammassassero bloccando il passaggio. Sono riuscito ad aprire il portellone e ho afferrato la mano di Jenny, la donna seduta accanto a me. Siamo usciti sull’ala e abbiamo percorso qualche metro tenendoci a vicenda.
Le onde lambivano l’ala che affondava lentamente. Ci siamo spinti il più avanti possibile per fare spazio ad altri passeggeri. Quelli che erano seduti agli ultimi posti spingevano per uscire, mentre l’aereo cominciava a riempirsi d’acqua. Ma sull’ala tutti aiutavano tutti. Faceva molto freddo e nessuno aveva la giacca. C’erano persone immerse nell’acqua fino alla vita e io pensavo: “Adesso affoghiamo. Moriremo congelati”.
Mi è sembrato che il traghetto ci abbia messo mezz’ora ad arrivare, ma forse sono stati cinque o dieci minuti. Per un attimo ho pensato di tuffarmi per raggiungerlo, ma avevo sentito che bastano pochi secondi per andare in ipotermia: nel giro di qualche minuto gambe e braccia non funzionano più. Se la testa finisce sott’acqua, il cervello può subire dei danni. Sono stato il quarto a salire sul traghetto, e ho cominciato ad aiutare gli altri. C’era una donna che si teneva stretto un bambino. Un uomo, stordito perché era finito sott’acqua, stava sdraiato sul ponte del traghetto e si lamentava. I marinai si sono tolti le giacche e le camicie per darle ai passeggeri che morivano di freddo.
Il trauma mi è rimasto. Ho immaginato tanti finali diversi: il portellone che non si apriva, l’ala che sbatteva contro la superficie del fiume rovesciandoci e facendoci ruotare finché l’aereo andava in pezzi e io finivo a testa in giù, sommerso dall’acqua. E ho anche pensato: perché proprio io? Perché sono ancora qui? Ma di questa esperienza ricorderò sempre che tutti hanno fatto del loro meglio per aiutare gli altri. È confortante sapere che in un momento di difficoltà sono stato capace di reagire. Sono riuscito a farcela affrontando una cosa alla volta, pensando solo ai dieci secondi successivi. Apri il portellone, spingilo in fuori, cerca di capire se stai affondando. Qual è la prossima cosa che devi fare? Ho continuato così finché ho toccato terra, sono entrato nella stazione dei traghetti e ho parlato con mia moglie. Solo allora sono andato in bagno e mi sono abbandonato al pianto per qualche minuto.
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