oggi sul Corriere una bella intervista a Frances Ouseley, ex Alitalia e ex Easyjet
Che succede nel trasporto aereo?
Frances Ouseley
«L’industria è quasi ferma per la chiusura delle frontiere e le restrizioni. È una crisi che non ha precedenti nel settore. A fronte di un crollo delle prenotazioni tra l’80 e il 95% le compagnie hanno messo a terra o tutta la flotta o tagliato la capacità (i posti offerti, ndr) e quei pochi voli viaggiano quasi vuoti. Lufthansa, per esempio, ha tagliato il 95% della capacità, Iag il 75%, easyJet e Ryanair hanno parcheggiato quasi tutti i velivoli».
I vettori stanno cercando di affrontare al meglio questa crisi...
«Stanno lottando per la sopravvivenza, anche quelli solidi. Le società hanno una liquidità che garantisce mediamente 2 mesi di vita (al netto delle prevendite dei biglietti, ndr): da un mese di Lufthansa a undici mesi di Ryanair. Per questo la Iata stima in 200 miliardi di dollari le esigenze di finanziamento».
Per essere più chiari: Ryanair può quindi andare ancora avanti senza vendere un biglietto per quasi un anno?
«Esatto».
Cosa stanno facendo le compagnie in concreto?
«Tutte stanno prendendo misure volte ad aumentare la liquidità in cassa per garantirsi più giorni di sopravvivenza. Stanno cercando di non diminuire la cassa chiedendo ai governi la sospensione della EU261 (sulla compensazione e assistenza dei passeggeri in caso di problemi con il volo, ndr) e quindi di non restituire i soldi dei biglietti già venduti, ma trasformarli in voucher. Questa concessione è essenziale perché i consumatori chiedono di riavere i soldi degli acquisti già effettuati. Inoltre stanno cercando modalità di riduzione dei principali costi fissi — quelli cioè che sostengono anche in assenza di operatività — e sono legati al costo del lavoro e agli aeromobili. Sul costo del lavoro stanno chiedendo aiuti ai governi e sulla flotta le compagnie che hanno aeroplani in leasing possono rinegoziare i pagamenti o restituirla, quelle che hanno i velivoli in proprietà possono fare operazioni di vendita e lease back».
Cioè vendo i velivoli e li riprendo a noleggio...
«Sì, ma visto il calo del valore degli aerei questa non è tra le operazioni più desiderate: è come vendere una casa nel momento in cui il prezzo è crollato. Ci sono poi aziende come Qantas che hanno impegnato parte della flotta accedendo a risorse liquide immediate e rinegoziato i contratti con i piloti, altra forma di riduzione dei costi».
«Così con il coronavirus è ritornato il mito della compagnia di bandiera»
Però non tutti i vettori possono ricorrere a questi strumenti per reagire...
«Per fare un esempio: secondo stime di Goldman Sachs il 30% della capacità all’interno dell’Europa è detenuto da 200 piccole compagnie: ulteriori fallimenti o chiusure come nel caso di Germanwings da parte di Lufthansa e quindi un’accelerazione del consolidamento del settore è inevitabile, con la conseguente ricaduta sull’occupazione».
Quindi le aviolinee più piccole e le più fragili sono le più a rischio?
«Direi in realtà tutte, anche le grandi. Per questo cercano tutte di aumentare i soldi in cassa».
E i governi come reagiscono? Perché a vedere i comportamenti sembra che ora l’Italia non sia l’unica a ricorrere all’aiuto di Stato.
«Prima una premessa: le compagnie aeree sono di fondamentale importanza per ogni Paese, sia nei momenti positivi che in quelli negativi. Sono il perno attorno a cui ruota la connettività, gli interscambi economici e i flussi di beni anche critici. In un periodo come questo i vettori consentono il trasporto di medicinali, cibi, dottori e persone che aiutano altre persone».
Direi che consentono anche di tornare a casa.
«Certamente, pensi se non ci fosse stata Alitalia (o Neos) in questo periodo. L’Italia è tra i Paesi a maggior penetrazione delle low cost, che però hanno chiuso i voli con noi: chi avrebbe portato a casa i passeggeri e garantito il trasporto dei beni essenziali?».
Questo secondo lei ci dovrebbe far riconsiderare l’approccio nei confronti dei vettori nazionali?
«Gli eventi attuali portano a riflettere sull’importanza di una compagnia aerea come asset che abbia anche una vocazione sociale. L’apertura dei governi a offrire aiuti di Stato — di varia natura e dimensione — va letta sia in questa luce, sia in considerazione dell’opposto: quale sarebbe l’impatto di uno stop prolungato o di un fallimento?».
Ecco quali sarebbero le conseguenze?
«Intanto ci sarebbe la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro (diretti e indiretti) — solo in Italia ad esempio l’industria impiega il 7% del totale della forza impiegata nel Paese —. E nel mondo impiega 25 milioni di persone. Poi non dimentichiamo che le compagnie operano in un business regolamentato: se chiudono per tanto tempo il ritorno all’operatività è più complicato».
In che senso?
«Piloti ed equipaggi hanno degli obblighi su parametri minimi di volo. Anche gli aerei devono volare per essere mantenuti in buone condizioni».
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Finora che tipologie di aiuti dei governi si stanno delineando?
«Si tratta di interventi regolatori e finanziari, dalla sospensione della legge Ue 261, ad aiuti di natura finanziaria come ha fatto la Germania con Lufthansa e Tui per alleggerire il costo del lavoro o come la Francia e l’Olanda per Air France/Klm concedendo 6 miliardi e in Asia i 13 miliardi per Singapore Airlines».
Ma questo non a costo zero.
«Alcuni governi chiedono delle contropartite: negli Usa hanno erogato 50 miliardi di dollari tra sovvenzioni e prestiti ma in cambio chiedono che la metà siano a sostegno dell’impiego e la garanzia di una connettività minima tra alcune città. Ci sono altri esecutivi — come quello inglese — che vogliono valutare caso per caso e aggiungono la sospensione delle tasse di sorvolo e delle addizionali d’imbarco. Ma esigono che i vettori facciano la loro parte per aumentare la liquidità, tramite un intervento anche da parte degli azionisti. Del resto molte compagnie nel mondo hanno remunerato gli azionisti con i dividendi, adottando politiche di risk management che ora risultano insufficienti».
La domanda è inevitabile: possibile che le compagnie non si siano preparate a uno scenario del genere?
«Questa cosa non è mai successa. Qui ci troviamo di fronte a una situazione che per dimensione e durata non ha precedenti. Le crisi sono sempre state geografiche e di durata limitata».
L’intervento statale ci porta ad affrontare anche il tema delle nazionalizzazioni: pensavamo riguardasse solo Alitalia...
«L’ingresso nell’equity è una forma di aiuto che alcuni governi stanno valutando, anche grazie alla presa di coscienza dell’importanza del trasporto aereo, ma non è necessariamente la migliore soluzione. È chiaro che per Alitalia si tratta di una grande opportunità di ripartire e riuscire in un’impresa che è fallita per decenni».
La compagnia tricolore secondo lei è sulla strada giusta?
«Il governo deve imparare dagli errori precedenti. Non deve avere una presenza ingerente nella gestione, non deve considerare gli impiegati come un serbatoio di voti e deve farla guidare dai tecnici che conoscono il settore. Questo non significa rinunciare al capitale privato: spero che in una fase successiva, una volta dimostrata la capacità di rilancio, qualche grande imprenditore italiano sia più convinto e disponibile a entrare in un’azienda che ha prospettive di successo».
Una nuova Alitalia senza quindi un partner industriale?
«Non è possibile rinunciare ad una grande alleanza internazionale. Alitalia per dimensioni e struttura del mercato non può competere da sola. L’Italia è un Paese prevalentemente a flussi turistici in entrata e la domanda nazionale, italiana è insufficiente a riempire un aeroplano oltre che essere a basso ricavo unitario. Serve un partner forte, con una rete di collegamenti in Europa e nel resto del mondo, in grado di riempire gli aerei dall’estero dove la notorietà e la massa critica di Alitalia sono scarse e non realizzabili da sole. Qualcuno che insieme ad Alitalia porti turisti, alimentando così anche l’indotto del nostro Paese, che vive di turismo».
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Da quello che emerge sembra che nella newco Alitalia a trazione pubblica potrebbe esserci la presenza del sindacato nel board. Come vede questa possibilità?
«Mi chiedo se avere nel consiglio di amministrazione chi rappresenta l’interesse del 20% dei costi operativi sia una soluzione che garantisce lo sviluppo profittevole di medio-lungo periodo. Credo che con i sindacati sia possibile una relazione virtuosa, anche senza la necessità della presenza nel board: serve però una guida illuminata che ascolti e coinvolga».
Quando era in easyJet lei ha avuto a che fare con i sindacati italiani, li conosce bene.
«Vero. Nel trasporto aereo il sindacato è chiave, perché la maggior parte del personale lavora a bordo e non riesce ad avere una relazione diretta con chi gestisce l’azienda. E allo stesso tempo per il management è fondamentale capire il punto di vista del personale, acquisirne le idee e gli spunti per migliorare. Il sindacato è stato un alleato per comunicare con le persone e fornire input sulle nostre aree di miglioramento».
E di miglioramenti Alitalia ne deve fare un bel po’...
«Una delle sfide chiave della compagnia sarà recuperare la fiducia dei clienti e dei contribuenti: il ruolo del sindacato sarà di vitale importanza perché bisognerà non solo rimettere al centro il cliente, ma anche ottenere la fiducia delle persone che lavorano, quel senso di appartenenza ed orgoglio che in passato è sempre stato presente nei lavoratori, creando energia e consapevolezza che ognuno può contribuire a rendere il consumatore felice di volare con Alitalia. Ma si dovrà partire dai dipendenti perché lavoratori felici sono un must per avere clienti felici e fidelizzati».
Però questo deve fare i conti con quel che sarà il trasporto aereo: che futuro avrà?
«Sopravviverà. Quando avverrà la ripresa e come dipenderà da se e quando si troverà un vaccino o una soluzione sanitaria che consentirà alle persone di sentirsi tranquille a tornare a volare. Difficile fare previsioni, si parla di stime superiori ai 18 mesi per il recupero della domanda e dell’ultimo trimestre del 2020 per vedere segni di ripartenza. Nel frattempo assisteremo a una grande depressione, con crollo del potere d’acquisto, un’accelerazione del processo di consolidamento, una revisione della capacità sostenibile di medio-lungo periodo con impatto decongestionante su tutte quelle infrastrutture che nei periodi di picco estivi si sono mostrate vicine al collasso».
Solo questo?
«È probabile che le concessioni governative a sostegno dei lavoratori possano determinare come richiesta una restrizioni sulla politica dei dividendi e in alcuni casi una maggiore focalizzazione sulla decarbonizzazione per gli aspetti ambientali. Questo è il “periodo-ponte” che richiede adattamento, agilità e capacità di prendere decisioni coraggiose».
Periodo per fare cosa?
«Oltre alla necessità di trovare modalità di sopravvivenza garantendo il più possibile l’impiego, l’industria ha la possibilità di pensare ad alcuni cambiamenti necessari e noti, ma mai messi in atto: non solo rimettere il cliente al centro, riprogettando e rimuovendo ciò che ha generato insoddisfazione ma anche affrontare la riforma della frammentazione del controllo del traffico aereo a livello europeo, l’utilizzo minimo degli slot, il miglioramento della digitalizzazione dei processi e una inevitabile revisione del risk management».
«Così con il coronavirus è ritornato il mito della compagnia di bandiera»
Nel frattempo cosa devono fare le singole compagnie aeree?
«Quelle che stanno volando stanno già adottando costose misure di sicurezza sanitaria: pulizia degli aerei, riduzione dei servizi di bordo, più spazi tra i passeggeri. Quale sarà la modalità della ripartenza dipende dalle soluzione sanitarie e dalle regole imposte dai governi, nella speranza peraltro che almeno in Europa siano il più omogenee possibili. Sarà fondamentale la capacità di essere flessibili e creativi nell’adottare un modello operativo in linea con le regole, che non leda la profittabilità e che nello stesso tempo sia in grado di attrarre la domanda. Anche perché nel momento in cui si potrà tornare a volare, la convergenza tra minore potere di acquisto e paura implicherà che i viaggi non saranno più una priorità per la maggior parte delle persone».
C’è il forte rischio che volare possa tornare ad essere costoso...
«Basti pensare che se le misure di distanziamento fossero tra le soluzioni adottate il modello low cost ad alta efficienza — elevata densità dei posti e livelli di riempimento dell’aeromobile — sarebbe messo sotto pressione e di conseguenza sarebbe difficile poter mantenere i prezzi a cui siamo stati abituati. Ma è importante che il trasporto aereo riparta al più presto, con tutte le cautele necessarie, perché da quando sarà possibile volare serviranno due o tre mesi per generare prenotazioni e il consumatore avrà bisogno di altro tempo per costruire la propria tranquillità a tornare a volare».
Quindi secondo lei cambierà l’atteggiamento verso i viaggi?
«Se dovessimo convivere con le regole di distanziamento per un periodo prolungato, l’intera esperienza di viaggio cambierà. Aeroporti e compagnie aeree dovranno sviluppare strumenti per decongestionare le file ed evitare gli assembramenti tipici dei momenti di picco. Già in questo periodo alcune compagnie (Delta Air Lines ed easyJet, ndr) stanno adottando soluzioni di chiamata all’imbarco per numero di posto attraverso la propria app».
Ma questo ovviamente non sarà sufficiente.
«È solo un indicatore dell’agilità dell’industria. Aeroporti e compagnie da tempo stanno pianificando una trasformazione digitale basata su automazione, robotica e biometrica. Questo subirà un’accelerazione e la tecnologia sarà l’elemento chiave per ridurre i contatti tra le persone, con le superfici, per aumentare la protezione dello staff aeroportuale ed in ultima analisi creare tranquillità nel consumatore verso il viaggio in aereo».
E la domanda come cambierà?
«Questo periodo ci sta insegnando che lavorare in remoto è possibile. Torneranno anche se lentamente i viaggi di piacere e per vacanza, ma il traffico d’affari si ridurrà, le aziende avranno imparato che è più efficiente gestire le riunioni a distanza ed avranno esigenze di contenere i costi».
E in tutto questo in Italia che cosa ci aspetta?
«C’è l’opportunità di rivedere la competitività dell’intero sistema e adottare misure che distribuiscano in modo più equo il valore a beneficio di chi vola: gli aeroporti sono troppi e tra quelli grandi il meccanismo che regola le tariffe alle compagnie, che poi le ribaltano in prezzi, è troppo favorevole agli scali che infatti sono gli unici nella catena del valore ad avere margini elevati. Questo meccanismo deve essere modificato dal regolatore».
Troppi scali in Italia?
«Ci sono troppi aeroporti piccoli — nel Nord da Est a Ovest ce n’è uno ogni 50 chilometri — che non regolamentati usano i prezzi per farsi concorrenza tra loro, finanziando la presenza spesso di un’unica compagnia aerea. In questo modo il sistema aeroportuale non riesce a fare economie di scala. Inoltre questi piccoli impianti sono i più a rischio e saranno i primi a farci le spese nel momento in cui la compagnia che domina si vedrà costretta a ridurre o tagliare la capacità. Mi aspetterei inoltre che in un contesto di riduzione del traffico progetti di investimenti legati ai nuovi aeroporti come Comiso o Salerno abbiano meno senso».
Di cosa ci sarebbe bisogno nel nostro Paese?
«Di misure forti di rilancio del turismo all’estero, capaci di stimolare la ripresa dei flussi turistici e misure a sostegno di tutte le compagnie che operano qui — come la sospensione delle tasse d’imbarco e di sorvolo — per alleggerire i costi dei vettori e aiutare la ripresa della domanda a prezzi accessibili e sostenibili».
Fonte
https://www.corriere.it/economia/aziend ... 10dd.shtml